martedì 25 gennaio 2011

Conversazione con François Jullien.

Conversazione con François Jullien.



Conversazione con François Jullien.


Conversazione raccolta da Richard Plorunski e Bill Gater all’hotel Tokyo Daiichi, Shimbashi, il 25 gennaio 1998.

Potrebbe cominciare parlandoci di lei? Dirci qual è stato il suo percorso, qual è stata la sua formazione, come filosofo direi. Poi cosa l’ha condotta a interessarsi al pensiero cinese, che cosa ha apportato il pensiero cinese alle sue riflessioni e dove la ha condotto.





Lei sa che la filosofia tende a fermarsi sulle sue domande, a formare una tradizione, e la mia scelta di passare per la Cina è un mondo di tornare indietro rispetto alla storia della filosofia europea. Dico spesso, un po’ come paradosso, anche se in verità non lo è, che sono passato dalla Cina per leggere meglio il greco, perché in realtà sono un grecista. Quindi ho lavorato nel regno della filosofia, in particolare della filosofia greca, e sono diventato consapevole che c’era come una sorta di familiarità con la Grecia che mi impediva di conoscerla. In fondo volevo trovare un modo di tornare indietro per ri-interrogare la filosofia.
Allora perché la Cina? Per dei motivi molto semplici che sono che era necessario che uscissi dalla cornice indoeuropea, da quella sorta di grande lingua indoeuropea; dunque non doveva essere il sanscrito. Occorreva anche uscire da dei rapporti storici; quindi non poteva essere in nessun modo né l’arabo né il mondo biblico, ebraico, che sono legati alla nostra storia. Occorreva allo stesso tempo indirizzarsi verso un pensiero che fosse stato, come il pensiero greco, esplicitato, commentato, sviluppato in testi scritti molto presto. Ora, se si prendono queste tre caratteristiche, non resta che la Cina. Non si tratta affatto dunque di un interesse per la Cina in quanto tale, per amore della Cina, non è affatto un interesse di carattere esotico: è un interesse di metodo. Di metodo, vuol dire, in fondo, trovare una cornice di pensiero che sia esterna al mio, per uscire dalla contingenza del mio pensiero. Cito spesso una frase di Pascal che trovo adatta, quando dice: “Mosè o la Cina”. E’ in Pascal: “Chi è più credibile dei due, Mosè o la Cina?” E questa espressione mi piace perché è una sorta di alternativa teorica, Mosè o la Cina, ma nello stesso tempo in cui è un po’ sbilenca , un po’ squilibrata, perché da una parte c’è Mosé, figura del monoteismo, una persona, e dall’altra la Cina, una sorta d’orizzonte del pensiero. E anche quando dice: “la Cina mi preoccupa”, non trova?
Allora direi che ho un doppio uso della Cina. Da una parte quello che mi ha interessato è che quando si passa dal pensiero europeo al pensiero cinese, si resta disorientati. Il che non vuol dire che il pensiero cinese sia così diverso dal nostro, ma che in partenza i due pensieri sono indifferenti l’uno all’altro. Indifferenti: non si conoscono, si ignorano. E quindi la difficoltà sta nel fare sì che si incontrino, di fare in modo che si possano confrontare, perché all’inizio, se vuoi, non c’è una cornice comune al cui interno io possa sistemare il pensiero cinese e quello europeo. Non sono sulla stessa pagina. Non posso suddividere la pagina e dire: da un lato la Cina, dall’altro l’Europa. Non è una storia comune, non c’è un quadro linguistico comune.
Dunque c’era un certo interesse per una cornice esterna; interesse doppio per me. Da un lato, scoprire altri modi di intelligibilità possibile. Dico intelligibilità, intendo coerenza di pensiero, per non parlare di verità – la verità è una nozione molto europea. Quale altro modo di intelligibilità si può concepire? Per esempio delle caratteristiche mi sembrano essenziali: come il pensiero cinese sia passato al lato della nozione di essere, dell’ontologia, mentre da noi la nozione di essere è il punto di partenza della filosofia; o come il pensiero cinese non sia passato attraverso la tensione tra mito e discorso, mythos-logos, che è all’origine della tradizione greca; o come il pensiero cinese sia passato al lato di Dio...insomma, i grandi oggetti della filosofia. Bene, questo non vuol dire che non ci sia una certa idea di Dio in Cina, ma è certo che molto presto è stata lasciata cadere, trasformata, messa da parte. Il pensiero cinese le è passata a lato. Questo “passare a lato” di nozioni che per noi sono nozioni, diciamo, fondamentali della filosofia mi sembrava interessante perché scombinano la filosofia. E poi per un effetto di ritorno: per me la Cina è una deviazione. Una deviazione che non finisce perché non smetto di leggere il cinese e di lavorare, ma una deviazione perché miro a un ritorno, per tornare sui partiti presi della ragione europea che, attraverso la Cina, posso riscoprire. Perché c’è tutto quello che il pensiero europeo ha talmente assimilato da darlo per scontato al punto da non interrogarsi più. Passando da questa differenza del pensiero cinese tornano a essere salienti e problematiche cose che, altrimenti, sembrerebbero banali e che vanno da sé, universali, senza che tutto questo sia stato verificato. Quindi c’è una specie di ritorno, che è un tornare sui partiti presi del pensiero europeo e tornare a monte della filosofia, per cercare di percepire meglio quali sono le scelte implicite a partire dalle quali si è venuta a costruire la filosofia in Europa. E’ chiaro questo?
E’ chiaro. Ma, prima di continuare ci può spiegare come ha imparato il cinese e cosa si aspettava di trovare affrontando la lingua cinese? Cosa la ha sorpreso e che conferme ha trovato rispetto a quello che si aspettava? Cercando di ricordare un po’ concretamente la sua esperienza...
Di fatto ho fatto studi francesi classici: la Scuola Normale superiore, la docenza. E anziché cominciare una tesi – avevo in mente di fare una tesi su Aristotele, sulla filosofia greca -, mi sono detto che avrei sempre fatto in tempo a fare una tesi su Aristotele – ce n’erano già altri prima di me – e che d’altro canto, ero ancora giovane, avevo ancora davanti anni di studio alla Normale che forse potevano offrirmi l’opportunità di un’esperienza di pensiero più decisiva o più radicale che non restando nell’ambito degli studi greci. E poi ero cosciente, in fondo, che oggi la nostra cultura, i nostri umanesimi come si diceva prima, non sono più limitati all’orizzonte europeo. Cercavo una specie di dimensione nuova, un’altra dimensione per la mia cultura. Quando si hanno venti anni, quando si ha la vita davanti, o almeno così si crede, piuttosto che rientrare nel solco, diciamo, universitario, mi sono detto che...Bene. Allora ho imparato il cinese, in Cina.
Direttamente?
In Cina e nel momento sbagliato perché erano i momenti finali della rivoluzione culturale. Sono passato brutalmente dal conforto intellettuale della Scuola Normale Superiore alla Pechino della fine della rivoluzione culturale e, peggio, della rivoluzione all’interno dell’insegnamento, il movimento di quel periodo. Quindi, se vuole, è stata un’esperienza molto difficile perché era la fine del maoismo, del giornale ufficiale, della propaganda, di forme di pensiero estremamente sterili, sclerotizzate. Insomma, bene...non la filosofia, eh! E’ chiaro. Lo stesso ho passato quasi due anni in Cina, a Pechino, poi a Shanghai, con l’idea che bisognava attraversare queste difficoltà perché c’era una sfida. Quale sfida? Ma la lingua! Perché quando impari il cinese anche il più elementare, quando dici per esempio: “Cos’è questa cosa?”, shi shenne dongxi, dici: “Cos’è questo est-ovest”. E questo lo trovo fantastico, da un punto di vista filosofico. Perché per noi, “cosa” è un termine che individua. “Cosa”, “causa”, è un termine isolante. Quando per dire la stessa cosa, se così posso dire, in cinese, e nel cinese di oggi, non nel cinese classico dei filosofi, dici: “Cos’è questo est-ovest?” esprimi una relazione. Il pensiero cinese è un pensiero essenzialmente relazionale. Per dire paesaggio, si dice “montagna e acqua”, shansui o shanchuan.
Quindi questa idea, in fondo, che il pensiero cinese si dovesse articolare in modo diverso dal pensiero greco. E’ un ‘intuizione che la lingua cinese ci dà molto presto e poi conferma via via che la si impara. E questa idea di partenza che avevo di una deviazione attraverso la Cina per ri-interrogare la filosofia e, preciso, per ritrovare una sorta d’iniziativa teorica in filosofia. Perché in filosofia, come dappertutto, ci sono degli inquadramenti: una filosofia politica, una filosofia morale, poi una filosofia di questo o di quest’ altro periodo, ecc.. E io auspicavo un uso libero della filosofia, quindi non limitato: m’interessa l’estetica, come la filosofia politica. Ora passando in questo modo, prendendo questa distanza, mi rendo conto di ritrovare una sorta di margine di manovra filosofico. Nella filosofia, partendo dalla Cina m’interessa tutto perché tutto vi è coinvolto.
Dunque ho trascorso un primo periodo in Cina, a cavallo della morte di Mao, dalla fine del 75 alla primavera del 77. Mao è morto nel settembre 76. Ho assistito a qualcosa che era molto interessante, che è stata la fine del discorso maoista e poi il rovesciamento del discorso maoista, periodo interessante perché rivelatore. Dopo di che sono rientrato in Francia per un terzo ciclo. Poi ho vissuto a Hong Kong dove ho lavorato come direttore della sezione francese di sinologia, un lavoro presso il Ministero degli Esteri, per ricreare un legame con l’Estremo Oriente. Tre anni, poi sono rientrato in Francia. E poi sono stato un anno in Giappone, alla Casa franco-giapponese; il Giappone è arrivato come una specie di complemento agli studi sinologici. Perciò direi che sono al tempo stesso filosofo e sinologo. Sinologo per mestiere perché serve un sapere sinologico, di cui certo non si è mai totalmente padroni, e poi filosofo per vocazione, per aspirazione, per il tipo di domande che mi pongo.
Quello che dice sulle metafore cinesi è molto interessante. Ha citato, per esempio, dongxi, la “cosa”. Crede che la gente, il loro modo di pensare sia davvero determinato da queste parole?
No. Dico che è rivelatore, non dico che è determinato. La domanda è ottima. Troppo spesso si riduce la differenza di pensiero tra la Cina e l’Europa a un determinismo della lingua o della storia. Si dice “è la lingua” il motivo per cui i cinesi avrebbero ignorato l’astrazione. Non è vero. Quando si guardano gli antichi testi cinesi, ci sono dei marcatori d’astrazione. Non i nostri: non è con dei suffissi o con dei procedimenti come i nostri; ma anche la lingua cinese ha elaborato dei marcatori di astrazione. Lo stesso, sul piano politico, la Cina non ha conosciuto il mondo delle città come la Grecia; ma nell’antichità c’erano dei principati rivali e gli uomini di pensiero potevano viaggiare da un principato all’altro. C’era dunque una certa libertà di movimento e di parola. Certo ci sono delle ragioni storiche e linguistiche, ma [il loro modo di pensare] non ne è determinato, non è un determinismo. Penserei piuttosto, come dicevo a proposito del termine dongxi, che è rivelatore.
Rivelatore del fatto che, effettivamente, il pensiero cinese ha sviluppato delle intuizioni, dei modi di pensare che si iscrivono anche nella lingua. Uno degli aspetti essenziali del pensiero cinese classico, è il pensiero per polarità. E’ molto interessante perché il nostro pensiero rispetto a questo fatto sembrerebbe molto isolante o monopolizzante. Si è pensato l’essere, si è pensato l’atomo, si è pensato Dio, dunque delle istanze isolate, mentre il pensiero cinese, lui, pensa per relazioni, cioè a dire per polarità: caldo e freddo, alto e basso, cielo e terra, yin e yang, ecc. E quindi sempre per coppie. Cos’è dunque una polarità? E’ quando si hanno simultaneamente dei termini opposti e complementari, quindi un’interazione. E’ per questo che il pensiero cinese pensa in termini di processo. Processo per interazione, tra due poli; mi spiego? Allora credo che questo lo si rilevi nella lingua e lo si può osservare finanche nella lingua moderna, fino alle espressioni correnti. Ma, ancora una volta non lo ridurrei a un determinismo della lingua; anche se la lingua gioca un ruolo importante perché la lingua greca e le lingue europee in generale sono molto sintattiche, molto costruite, mentre la lingua cinese è molto paratattica, giustappone molto di più e il legame sintattico è molto meno forte che non nelle nostre lingue. Quando non ci sono declinazioni, non ci sono coniugazioni, non ci sono desinenze, la struttura del discorso è diversa. Ma, lo stesso, non ridurrei questo a ragioni solo linguistiche.
Diceva, prima, che il pensiero cinese è un pensiero che non ignora l’astrazione. Ma direbbe, per contro, che ignora la metafisica?
Certamente. Il pensiero cinese è un pensiero elaborato e non si deve fare quello che si è fatto fin troppo in Europa, cioè considerare che sia rimasto nell’infanzia della filosofia. E’ un po’ la facile visione hegeliana quando si dice: la filosofia è cominciata in Estremo Oriente, in Cina, ma è nata soltanto in Grecia, perché in Grecia è sbocciato il concetto, è sbocciato il rapporto tra soggetto e oggetto, ecc. Dunque Hegel comincia dalla Cina, ma per svuotarla. E’ una cosa da cui si è usciti molto poco; la filosofia continua a farlo. Mentre so che il pensiero cinese è stato, certamente, capace di astrazione, di sistematizzazione. Troppo spesso si attribuisce ai cinesi una sorta di leggero disordine, non crede? No! Ci sono delle sistematizzazioni estremamente sottili, rigorose, complesse. Ma è vero che è passato di lato alla metafisica. Cosa vuol dire? Vuol dire dello sdoppiamento del mondo. La metafisica, in fondo, sdoppia il mondo tra due piani, due ordini del reale: il sensibile e l’intelligibile, o il sensibile e lo spirituale, come tra due ordini incommensurabili. E’ Platone, ma è anche tutta la tradizione filosofica che a lui s’ispira, e da cui non si è mai del tutto usciti.
Quel che mi sembra interessante in Cina, per converso, è che non c’è che un solo ordine di realtà, a diversi livelli. Quest’ordine comune della realtà, è quello che viene chiamato Qi: soffio, energia. Quando l’energia, diciamo, si coagula, si indurisce, si condensa, fa le cose; quando si anima, resta fluida, comunicante, forma lo spirito. Non c’è questa sorta di scissione iniziale, radicale, tra un mondo della cosa, del concreto, e un mondo dello spirito, dello spirituale, o dell’intelligibile. C’è certo l’idea che il reale sia a diversi livelli, e che uno sia più prezioso dell’altro, ma c’è una transizione dal concreto allo spirituale. Basta guardare la pittura cinese. La pittura cinese è un modo di esprimere lo spirituale tramite il concreto. Non in maniera simbolica, non con il concreto che rappresenta su un altro piano l’idea, come nella tradizione del simbolismo europeo – è un po’ quello di cui parlo nel Détour et l’accès – dove il concreto non ha valore in se stesso ma ha valore d’immagine, di una cosa diversa da quella che è, verso cui rimanda, che è l’astratto, lo spirituale, l’intelligibile. Dunque non è a un livello simbolico. Ma attraverso il concreto passa qualcosa che è un concreto decantato, non più impantanato, non più reificato – vede, sono queste le opposizioni cinesi – ma decantato, animato e che è spirituale. Quindi credo che effettivamente ci sia questa idea essenziale di un pensiero che sia un pensiero elaborato e che non passi dalla grande rottura metafisica che è stata una delle tensioni forti della filosofia.
Lei ha appena usato un’espressione interessante, ha detto che il pensiero cinese è passato “a lato” dello sdoppiamento, “a lato” della rottura metafisica. Ma l’uso di questa espressione non denota una visione etnocentrica? In questo modo non la pone in fondo da una prospettiva hegeliana, una prospettiva dei Lumi e del Progresso iscritto nella storia? Non è che si potrebbe, al contrario, considerare il pensiero occidentale come una sorta di incidente storico, una “illusione” nel senso usato da Freud ne “L’avvenire di un’illusione” per il monoteismo giudaico? Non è che si è vissuto in questa illusione da cinque secoli a questa parte, a partire dal Rinascimento?
O venti secoli, diciamo venticinque.
O venti secoli...ma soprattutto cinque secoli, perché finché il pensiero greco restava chiuso in Grecia o nella sua zona d’influenza, era un pensiero tra gli altri, in fin dei conti. E’ con l’espansione dell’Occidente su tutta la superficie del globo che una pretesa di universalità si è imposta come quadro di riferimento per il pensiero. Allora...lei arriverebbe fino a ribaltare completamente questa prospettiva?
Sì. L’ho fatto proprio nel mio ultimo libro. Allora, il “a lato di”...Sì lo uso per forzare, no? Perché quando dico “è passato a lato di”, è che si può passare a lato, ed è quello che è successo, che ha pensato la Cina. Ma ha pensato “a lato di”, senza seguire i nostri percorsi, senza passare dai nostri passaggi.
Ma se dice “passato a lato di”, vuol dire che tuttavia esiste, virtualmente?
Sì. C’è un pensiero virtuale di Dio o dell’essere. Voglio dire... Non è che sto facendo il processo alla filosofia europea che trovo affascinante. E tanto più affascinante quando la guardo dalla Cina...
Resta comunque il problema della verità che ci sta dietro.
Ci torno. Le avevo detto che mettevo tra parentesi il problema della verità. C’è questo primo punto che è che la Cina non è rimasta nell’infanzia del pensiero. Ha sviluppato un pensiero che non è passato per gli stessi percorsi del nostro. Allora due cose sull’universale. Una potrebbe essere attuale, e una in relazione al pensiero cinese. Quando dico universale, lo prendo in un senso preciso che metterei in contrapposizione a uniforme. Cos’è l’universale? “Volto verso l’uno”. Cioè un’aspirazione, piuttosto un’esigenza costitutiva della ragione, che è l’universalità come aspirazione a, diciamo, un’identità comune a tutti. Lei sa che una legge, dal punto di vista della ragione, deve essere una legge universale. Quindi penso che sia un’esigenza della ragione. E sono consapevole che si confonde davvero troppo questa nozione di universalità, oggi, con quella di uniformità. Che cos’è uniforme? E’ “formato sull’uno”. Che vuol dire il tipo unico, lo stereotipo, lo standard. E l’uniforme non è un concetto della ragione, è un concetto della produzione. E’ la produzione a catena, la produzione standard. Oggi viviamo nel mondo del mercato comune, mondiale come si dice. Viviamo nel mondo della comunicazione. Viviamo nel mondo della riproduzione dell’identico, per comodità. Ascolti, la prova: questo albergo (l’hotel Tokyo Daiichi dove ha luogo la conversazione), assomiglia a un albergo di Parigi, o di non importa dove, gli Hilton sono dappertutto quasi uguali...o qualche volta gli si aggiunge un tocco di colore locale, ma che in fondo non cambia niente. Dunque credo che oggi si corra un rischio che è quello di confondere l’uniforme e l’universale. L’uniforme che è un concetto della produzione, la cui ragione d’essere è una ragione di comodità, e poi l’universale che è un concetto della ragione, e che rimanda a una necessità.
E, appunto, se mi occupo della Cina, e del Giappone, in relazione all’Europa, è, come dicevo ieri ai nostri amici giapponesi, per provocare una resistenza contro quella che sarebbe una sorta di uniformazione del pensiero, un pensiero standard verso il quale credo si stia andando, un pensiero piatto perché senza più tensioni, con dei concetti che sarebbero una sorta di denominatori comuni, con una lingua che sarebbe un inglese standard, non l’inglese di Shakespeare ma l’inglese americanizzato, con delle grandi categorie: oggettivo/soggettivo, ecc., che sembrano facilitare la comunicazione e che, mi sembra, rischiano di sterilizzare il pensiero. E non vorrei che il pensiero del ventunesimo secolo sia un pensiero assolutamente piatto perché uniforme. Com’è che si pensa? Si pensa per scarti. Si pensa per tensioni. Il pensiero, credo che sia la prova di una resistenza. E’ questo che fa sì che si pensi: la prova di una resistenza. Altrimenti non si pensa, lo spirito è pigro. E temo che questa resistenza che provoca gli scarti, come quando si passa per esempio dal francese al giapponese – là c’è una resistenza, nella lingua, nel pensiero – progressivamente si stemperi e che il pensiero mondiale si assopisca su dei luoghi comuni. Questo è il primo punto.
La tensione, la resistenza, lo scarto...quindi le sue definizioni sono dal versante del pensiero occidentale...
Perché?
Per lo sdoppiamento. C’è qualcosa al di fuori del mondo a cui si può ricorrere, che si tratti di Dio, del progresso dello Spirito o della credenza nella Ragione Universale. C’è un’istanza che permette di mettere il mondo a una certa distanza e di valutarlo rispetto a un altro mondo possibile. Ma quando si vive in un pragmatismo totale, sia esso cinese o giapponese, quello che è fastidioso è che non c’è rimedio. Personalmente, in verità l’uniformazione del pensiero ho cominciato a viverla, a titolo d’esperienza, qui in Giappone. Non so come sia in Cina, ma in Giappone è veramente difficile sfuggire a una sorta di macchina uniformante.
Assolutamente
E’ per questo che i Giapponesi, per esempio, la sola difesa che hanno sono obbligati a venirla a cercare da noi in Europa o negli Stati Uniti, per avere la possibilità di fare una critica a se stessi. Hanno bisogno di questo specchio esterno per smuovere la loro società. Allora, quando parla di uniformazione del pensiero, ho paura che sia da quel versante. A cominciare dal momento in cui saranno sparite le ultime credenze nei rimedi esterni che hanno fondato la metafisica occidentale e che hanno fondato tutto quello che nè scaturito, compresa la democrazia, perché anche questa è una credenza, cosa resterà? Resterà questa immanenza. E da quel momento il mondo rischia di diventare sempre più...cinese. E questo creerà dei problemi...
Bene. Allora parliamone. Innanzi tutto, può darsi che io non sia stato abbastanza chiaro. Per me, il mio lavoro in tutti i miei libri, è di cercare ogni volta di mettere su un’impalcatura che rimetta in tensione il pensiero. Lo rimetta in tensione. Come una molla che si tende. Cercando, giustamente, di costruire un’impalcatura grazie a un certo incontro tra pensiero cinese, orientale, e poi pensiero europeo, in modo che, di nuovo, rilevino gli scarti, appaiano le linee di frattura e che il pensiero ridiventi sapido, interessante, perché ne esca una sorta di pensiero comune verso cui possano tendere le categorie europee che vi si rovesciano da tutto il mondo. Ora credo che lei abbia fatto un’osservazione che ritengo assolutamente corretta. Una delle grandi originalità del pensiero europeo è che ha conservato, sotto forme diverse che non ha smesso di cercare di laicizzare, senza riuscirci completamente, una trascendenza proveniente dall’esterno. Se devo riassumere quello che per me è il mondo europeo, il nome antico della trascendenza proveniente dall’esterno è Dio. Dopo ci sono state tutte le trasformazioni, come le ha chiamate lei, con l’idea di progresso, che è innanzi tutto un’idea religiosa: “procedere verso”, procedere verso il paradiso, una terra promessa, e che non si è smesso di cercare di laicizzare nel diciottesimo secolo, nel diciannovesimo secolo, senza peraltro mai farlo del tutto. Questa idea dunque, di una trascendenza proveniente dall’esterno che conduce a una immagine d’ideale. E’ perché c’è stata questa idea di trascendenza che proviene dall’esterno per esempio che si è pensata la libertà. La libertà è un affrancarsi rispetto al mondo. Perché il pensiero cinese non ha pensato la libertà nella sua tradizione? E’ perché è un pensiero di processo, intramondano: come dice lei: di immanenza. Qual è la modalità della trascendenza in Cina? C’è certo una trascendenza in Cina, è quello che viene chiamato il Cielo. Ma è una trascendenza che non viene dall’esterno come quella del Dio della Bibbia, o come quella delle idee platoniche, è una trascendenza che viene, come dico spesso, dalla totalizzazione dell’immanenza. Perché io, in quanto individuo, non ho che una parte ridotta nel processo del mondo, il mio campo è limitato. Mentre il Cielo è la totalità dei processi in corso. E non è un altro mondo: e il Cielo è al tempo stesso la totalizzazione e anche l’assolutizzazione dell’immanenza. E’ il processo in tutto il suo insieme. E’ per questo che spesso, in Cina si traduce il Cielo con “natura”. Ma io credo che sia molto diverso, perché in fondo tutto resta all’interno di un mondo intramondano. L’equivalente, se così mi posso esprimere, della libertà europea, in Cina è la spontaneità, zinran: “quello che si fa”, nel senso di sponte sua, cioè a dire quello che si fa da solo, da sé stesso. Allora, mentre è l’equivalente al tempo stesso è molto diverso, radicalmente diverso, perché non è la libertà con l’affrancamento che questa implica, ma è il fatto che il processo, o la condotta sul piano umano della saggezza, si svolge da solo, senza difficoltà, spontaneamente, senza resistenza. Ugualmente la verità...
E’ il problema che mi pongo nel mio ultimo libro: cercare di ricostruire una sorta di biforcazione teorica tra la Cina e l’Europa; non storica ma teorica. E come lei ha fatto osservare, in fondo si potrebbe, invece di dire che il pensiero cinese sarebbe rimasto all’interno dell’infanzia del pensiero europeo, vedere il divenire della filosofia come una sorta di deviazione dalla saggezza, di aberrazione, come se qualcosa avesse deviato, fissandosi sulla verità, che in seguito si è trovato catapultato dentro una storia, la storia della filosofia. Perché c’è una storia della filosofia, non c’è una storia della saggezza. Una storia dei saggi, presi individualmente, dei percorsi...
E’ questo che le permette di far dialogare Mencio con i Lumi, in “Fonder la morale” benché ci sia un intervallo di mille anni?
Certamente. Allora...Non c’è solamente una storia della filosofia, ma la filosofia è Storia. Perché? Lo mostro un po’ nel mio ultimo libro che in fondo – ed è il perché ho scelto questo titolo, una formula che ho trovato in Confucio – Il saggio è senza idee perché un’idea è un partito preso. Formulare un’idea è privilegiare un aspetto a detrimento degli altri. E’ dunque lasciar cadere degli aspetti della realtà. E’ quindi un privilegiare. E’ quindi una parzialità. Cos’è la saggezza in Cina? E’ non pendere da una parte. Dall’una o dall’altra parte. Non sprofondare nella parzialità. Il saggio è colui che rimane all’interno di un pensiero globale, disponibile, come si dice, perché il pensiero resta totalmente aperto, a tutto il reale, al reale in tutta la sua ampiezza, da un polo all’altro. E dunque che evita la parzialità come, direi, il filosofo ha voluto evitare l’errore. Direi che la parzialità per la saggezza è un po’ come l’errore per la filosofia E allora passare “a lato” della nozione di verità, significa che la filosofia è quel modo di pensare che ha cominciato con il formulare un’idea, ha poca importanza quale idea, nel senso in cui si dice “tenere alle proprie idee”, porre un’idea per cominciare e il resto ne consegue: principio, arché. Quindi, in fondo, cominciare da un’idea a cui si collega tutto il resto; no? Ma così ci sarebbe come una sorta di perdita iniziale, dice la saggezza, che sarebbe che si è cominciato privilegiando qualcosa, lasciando cadere, lasciando nell’ombra, il resto della realtà. Credo che ci si potrebbe raffigurare la filosofia in un altro modo, come se fosse una specie di deviazione che ha precipitato il pensiero in una storia dove, a partire dalla prima idea formulata, non si sarebbe mai smesso di cercare di recuperare quello che si era cominciato a lasciar cadere. La dialettica è questo: una storia in cui non si smette di voler recuperare, per un altro verso, in un altro modo, quel che si era cominciato a non considerare all’inizio. Dunque, una storia della filosofia. Rispetto a questo si distinguerebbe la disponibilità del saggio, pensiero senza storia perché resterebbe con un approccio aperto a tutta la realtà, con una sorta di disponibilità che non si attacca a nessuna idea.
Questo dice che si pone un problema che è la sua incidenza nel mondo politico. Voglio dire...la Cina ci indica come si possa pensare senza prendere posizione, mantenendo lo spirito aperto a tutte le possibilità, senza partito preso, senza privilegiare un’idea. Ma questo come si traduce sul piano politico? Di fronte al potere, non bisogna sostenere delle idee, attenersi a una verità? Credo che un punto debole del pensiero cinese sia che non ha smesso di concepire il potere ma che non ha mai potuto concepire la resistenza la potere. Individualmente ci sono delle resistenze, ma l’idea dell’intellettuale, la figura dell’intellettuale, non si è sviluppata in Cina, piuttosto quella del letterato, perché il letterato è sempre rimasto alle dipendenze del Principe. Non ha potuto costruire una posizione a parte, che rinvia giustamente a una trascendenza, come lei diceva prima, a un altro ordine. E’ a nome di un altro ordine che in Occidente si è formato l’intellettuale. Un ordine ideale. Una città ideale, nel cui nome poteva giudicare i rapporti di forza del mondo reale. Ma quando non c’è un altro mondo o un fuori, non c’è un ideale, non c’è una posizione di distanza rispetto alla quale poter denunciare l’ordine di potere esistente. Lo si può fare così... ma manca una posizione da cui farlo. Credo che sia una differenza essenziale, e che se ne possano vedere bene le conseguenze sul piano politico: l’intellettuale in Cina non ha potuto ricoprire questo ruolo che è stato essenziale nella storia occidentale.
Allora, c’è stata una cosa che mi è sembrata molto caratteristica, per tornare alla lingua. Come si traduce ideale in cinese? Lixiao. Alla lettera “pensiero del Li” Che cos’è il Li? Grande nozione cinese, che tradurrei come “principio regolatore delle cose”. Non è affatto l’ideale. Il termine serve a tradurre ideale in cinese, ma di fatto non è l’ideale perché è il pensiero di quello che è il principio interno della realtà, appunto il principio della coerenza del processo. Non c’è affatto una dimensione di esterno e di trascendenza. Trascendenza che, da noi, ha costituito l’ideale rispetto al reale? Non è così?
Allora, per tornare al problema dell’universale...
Facciamo un minuto di pausa?
Sì, se vuole.
(pausa)
Già si ricomincia?!
Siamo in Giappone.. Le pause sono brevi.
Può darsi... Ma io, io sono greco! Mi piacciono le pause. Mi piacciono le sieste... Va bene, che dobbiamo fare... andiamo avanti!
Ancora una domanda, se crede, sull’universalismo. Per lei c’è un punto che sia all’esterno sia del pensiero occidentale sia del pensiero cinese, ed è da questo punto che si potrebbe cercare di trovare un universale? Del resto, una posizione del genere potrebbe essere realizzata dal momento che presuporrebbe praticamente di prendere le distanze da entrambe le lingue, oppure la si può trovare, come suggerisce lei, in un andare e tornare?
Non credo – e questa è, se vuole, la caratteristica del mio lavoro – al fatto che si possa disporre fin dall’inizio di una posizione di tale altezza da cui si possa appianare la differenza. Non sono come i missionari del diciassettesimo secolo che avevano, loro, la verità in tasca, la rivelazione, la verità teologica e che affrontavano la Cina senza problemi perché sapevano quello che si doveva pensare; si credeva o non si credeva. E non credo nemmeno che si possa di primo acchito disporre di categorie universali.
Le do un esempio nell’ambito della letteratura. C’è un libro americano, scritto da un cinese, James Hsiao, Chinese Theories on Literature – credo che si trovi a Chicago – che è un libro che vuole presentare il pensiero cinese sulla letteratura. Come presentarla? Dice: si parte da quello che è uno schema universale per pensare la letteratura. E lo prende nella tradizione dei critici inglesi (Abrahams) che riflettono sulla tradizione del romanticismo; essendo il romanticismo un po’ il risultato di tutta una tradizione critica europea. E fissa quattro termini, che fanno sistema, che sono: in tutto il pensiero sulla letteratura bisogna soffermarsi sull’autore, l’opera, il pubblico e il mondo. Quattro termini dunque, universali. E li proietta, o piuttosto li applica, al pensiero cinese sulla letteratura per presentarla. Ebbene, dico che non funziona! Perché quello che ha fissato lì è ininteressante. Perché? Perché quelle nozioni non sono universali. La nozione di pubblico per esempio, ci è arrivata da un’esperienza particolare della letteratura, quella dell’epopea innanzi tutto, e del teatro. C’è una nozione di pubblico perché ci sono questi generi, il teatro e l’epopea che non sono esistiti in Cina. Quindi l’individuazione di questo polo che sarebbe il pubblico, come per esempio nell’Ars Poetica di Orazio dove si pensa l’opera d’arte in funzione del pubblico, questa idea di un pubblico costituito è una nozione che si riferisce a una storia particolare della letteratura. Lo stesso vale per la nozione di autore: proviene dall’idea di creazione che da noi rimanda a molte cose, come la creazione del mondo, ecc. C’è un parallelismo che accomuna creazione dell’opera e creazione del mondo. Mentre nel pensiero cinese l’avvento dell’opera letteraria avviene sotto forma di processo, come tutto il resto. Processo per interazione, che è, per la poesia, tra paesaggio ed emozione, Qing e Jing, il fuori e il dentro. Processo d’interazione, di trasformazione, come tutto il pensiero cinese che pensa in termini trasformazione e, quindi, non sa esplicitare una nozione di autore come nella tradizione europea.
Lo stesso per la nozione di mondo, anch’essa ha delle caratteristiche molto marcate. C’è un pensiero del mondo in relazione all’opera con un rapporto di mimesis, di opera d’arte che rappresenta, che imita il mondo. Ma, come ha detto bene Ricoeur, perché ci sia rappresentazione ci vuole innanzi tutto che ci sia rottura. Ora, appunto, quello che è interessante nel rapporto tra opera letteraria e mondo in Cina, è che è molto più nell’ordine dell’incontro o della comunione con il mondo; quello che noi chiamiamo il mondo, per comodità. Quindi vede, anche sul piano dell’esperienza letteraria che sembrerebbe la più comune, rimane sempre un divario. Questo non coincide... Questo altro non quadra bene. E quello che mi interessava, sono le differenze di cornice, appunto, che ci sia del “mosso”.
Quindi, non credo a una posizione dall’alto perché non ho una posizione teologica, o dottrinaria, di principio. Non sono un missionario che sbarca in Cina e non prendo come un’evidenza che ci siano degli universali di pensiero che scaturiscono dalla cultura. Ci sono delle tradizioni di pensiero e, in fondo, le categorie di essere, di verità, di soggetto sono delle nozioni particolari. Direi, per tagliar corto, che il pensiero cinese non è un pensiero del soggetto ma del processo. Non ha pensato la verità ma la congruenza. Insomma potrei sviluppare come questo...
Di conseguenza, il mio lavoro non avendo una posizione dall’alto, né delle categorie di universalità prefabbricate, prestabilite, è un lavoro di va-e-vieni. Mi trovo... in orizzontale; senza una illuminazione verticale. In orizzontale, comincio col fare cosa? Con il leggere testi cinesi. Un testo. Nella sua relazione con il commento cinese. Non sono io che leggo il testo. E’ tra il testo e il commento che comincio a lavorare. Poi cerco di esplicitare la coerenza di questo testo, in modo di farlo incontrare con un altro pensiero, il pensiero europeo, a estroverterlo. Sono dunque in un procedimento derivato dal va-e-vieni, ma che resta qualcosa di sbilenco. Resto in una situazione ambigua. Ma è questo che mi interessa, è proprio questa resistenza, questa specie di scomodità teorica che obbliga a rielaborare le categorie senza considerarle come del tutto concluse.
Ora, questo non è tutto. In quel piccolo libro sulla morale (Fonder la morale), quello cha fatto sì che lo sottotitolassi Dialogo, è che ero consapevole che non si trattava semplicemente di una differenza di esperienza. Non mi pongo il problema di vedere se l’esperienza cinese è diversa dalla nostra. E quando comincio da Mencio che dice che chiunque quando vede un bambino che sta per cadere in un pozzo tenderà le braccia per salvarlo senza pensare se ha o meno interesse a farlo, se ne ricaverà un beneficio, gloria o qualsiasi altra cosa, mi dico che c’è qualcosa di universale e che, da noi, si incontra con nozioni come la pietà. Ma allora, la pietà, è già un termine connotato, europeo. La pietà è già un termine rousseauiano, è un termine criticato da Nietzsche: “il dolorismo della pietà”... Ma questa idea di una reazione di fronte all’insopportabile, di cui parlo nel mio libro, credo di riconoscerci qualcosa che è un’esperienza descritta dai Cinesi, descritta da gente come Rousseau o altri e che so ben individuare, che so ben identificare.
Giusto una sfumatura. Quando dice universale... La pietà sarebbe universale ma non sarebbe naturale. Esistono delle società che sono crudeli, o che non riconoscono la crudeltà la dove altre la vedono.
Tutte le società sono crudeli. Dico bene : universale, “volto verso l’uno”. Non è equiparato a un uniforme. E’ un’aspirazione a qualche cosa che dovrebbe essere la stessa per tutti... “Dovrebbe essere”: è un dover essere universale.
Ma è innato?
Così dicono, loro. Bisognerebbe guardare le cose più da vicino. Diciamo che c’è un’aspirazione universale nella reazione di fronte all’insopportabile che capita agli altri; questo lo credo volentieri. E quello che mi interessa in questa vicenda, è come, in particolare nella morale, io riconosca, identifichi delle esperienze comuni. Perché l’esperienza da cui parto, del bue trascinato al sacrificio, io, francese del ventesimo secolo, la capisco molto bene. Non c’è bisogna di farci sopra delle speculazioni; mi parla...
Sì, è qui che, effettivamente, si troverebbe l’universale.
L’incongruenza del principe cinese quando propone di sostituire il bue con un montone perché ha visto lo sguardo terrorizzato del bue e non quello del montone, la capisco molto bene.
E’ anche quello che permette di interessarsi alla storia degli altri.
Certo. E’ quello che in fondo fa sì che io comunichi, lì c’è l’incontro, no? E quando Mencio lo dice, ha in mente un’esigenza di universalità. Dal momento che dice: “Per tutti gli uomini”. Parte da un esperienza che comincia con l’essere individuale, un re, un giorno, e poi dice: “Per tutti gli uomini, non...”. Quindi c’è in Mencio, come nella filosofia europea, un’esigenza di universalità. Ma quello che mi interessa è che in seguito, per sviluppare il suo pensiero morale, non passa attraverso certe pieghe del pensiero europeo. Per esempio non esplicita la categoria della volontà. Questo, questo mi è sembrato molto interessante. Perché per quanto ci riguarda noi abbiamo legato la vocazione morale alla volontà, quindi a una filosofia del soggetto. E la volontà, la si trova già pre-pensata, se così mi posso esprimere, nel pensiero greco, già in Aristotile. Le categorie essenziali in Aristotile, tra quello che faccio di buon grado, ekon, o mio malgrado, akon. Non si tratta di volontario o involontario, né libero o non libero; è di buon grado o mio malgrado. E poi le nozioni aristoteliche di campi preferenziali, desiderio, discussione, decisione, esse stesse non fanno che seguire l’indirizzo della tragedia greca. La tragedia greca, è una riflessione sulla messa in scena di come l’uomo si impegni nella sua azione. Aiace che sceglie il suicidio. Quindi questo risponde a una tradizione particolare. E quello che mi colpisce, è che Mencio non dice “voglio ovvero posso” ma “posso ovvero faccio”. E spesso il traduttore traduce con “posso ovvero voglio”. Corregge. Ma la sola scelta è molto chiara: è “faccio”.
Quindi, in Cina non si è esplicitata la categoria della volontà, mentre si vede bene come sia accaduto in Europa: tradizione greca, poi esperienza cristiana, “volere il male”, sant’Agostino, ecc., e che, tra gli autori che prendo come riferimento, Kant o Rousseau, fanno apparire la volontà come una cosa innata, comune a tutti e che va da sé. E mentre dicono, tanto Kant quanto Rousseau: “E’ enigmatico! La volontà, ne ho l’intuizione; è evidente; ma non cosa sia”. Talvolta la prendono come una cosa evidente e al tempo stesso mostrano di non doverne rendere conto. E’ molto interessante perché c’è una sorta di difficoltà del pensiero che posso rispecchiare nell’esperienza cinese dove quella categoria non è esplicitata. E in seguito, anche quella della libertà. Noi abbiamo concepito la morale ed è considerata, come dice Kant, nell’ambito dell’idea di libertà. E questo mi colpisce ancora oggi: guardate i nostri tribunali, come giudicano? In modo kantiano. Per prima cosa, per un criminale, si fa appello allo psichiatra, al sociologo, ecc. Quindi si tiene conto dei determinismi. Si fa appello alle scienze, alle scienze della natura o della natura umana: psicologia, psichiatria, sociologia... tutto quel che si vuole. E più la scienza è precisa, più è sottile nel determinare i determinismi, appunto. Poi dopo, si fa tutt’altro. Si dice: “Ma è libero!”. Mentre in un primo momento si è mostrato come non fosse libero, poi si prende una decisione trascendente – quando intervengono la trascendenza e l’esterno – e si dice: “Era libero, lo giudico”. Non più “spiego”, ma “giudico”.
E’ tutto il disagio della giustizia in Europa, attualmente...
Eh sì! Tutto il disagio... Non più “spiego” ma “giudico”. Ed ecco che indosso vestiti diversi che non sono più il camice del tecnico ma il vestito ma l’abito togato del giudice che dice: “Ecco. Ha fatto il male”. Allora si sdoppia l’uomo tra un uomo naturale, spiegabile tramite la scienza, e poi l’uomo trascendente, noumenale direbbe Kant, un altro Io, con una grande I, che è il soggetto libero, soggetto della libertà, e sul quale la scienza non ha più presa. Quindi siamo rimasti kantiani, totalmente. Ma con quel disagio di cui lei parla e che oggi è enorme. Quindi quello che m’interessa, è di vedere come dal lato cinese si è potuto elaborare un pensiero morale, con un’esigenza di trascendenza della morale, con delle formule che sono come quelle di Kant: ci sono delle cose che preferisco, a cui tengo più che alla vita, quindi dei valori superiori alla mia esistenza – trascendenza della moralità -, e allo stesso tempo senza passare totalmente dall’idea di libertà, che da noi è stata lo zoccolo di questa esigenza di universalità della morale. Trovo che questo permetta di vedere anche i disagi, o le incoerenze, o le difficoltà del nostro pensiero.
Quindi, rispetto a questo mio modo di procedere, poiché è di questo che si parlava, sono dentro il va e vieni. In fondo faccio una riflessione, in senso stretto. Riflessione, è riflettere una cosa su un’altra. Come un obiettivo si riflette in uno specchio. Rifletto una tradizione nell’altra e, e in questo mutuo riflettersi dell’una nell’altra, cerco di creare una sorta di spazio di pensiero problematizzante, riflettente, per tornare al nostro impensato. In fondo quello che cerco non è la Cina, è, in questo scarto tra pensiero cinese e pensiero europeo, risalire al nostro impensato.
Quindi lei è sempre all’interno della filosofia occidentale?
Sì, sono greco! E’ chiaro, sono greco e sono filosofo. Glie lo avevo detto fin dall’inizio. Ma cerco – è un po’ quello che diceva Merleau-Ponty, no? – di aprire il concetto. E cerco di praticare una sorta di apertura della filosofia grazie al riflesso in una altra da lei che pesco nella cornice cinese per i motivi che ho detto, di comodità, in modo di ri-interrogare la filosofia fin dai suoi fondamenti. La filosofia ma anche i nostri modi di pensare; come le ho detto, la giustizia occidentale, per esempio, per me è una cosa abbastanza aberrante.
Sì, perché non si sa più se bisogna punire o meno. E’ questo il disagio.
Eh no! Perché si perde tempo innanzi tutto a spiegare. E se spiego, non punisco. Il film M il maledetto, è questo. Se spiego, non giudico. Se spiego, non giudico. Perché più si sviluppa la scienza, più scende nei particolari, più è sottile nel cogliere i determinismi. La scienza, cos’è? E’ la causalità. Quindi sempre più è in grado di determinare le causalità. Allora, ancora una volta, ha commesso questo crimine perché a livello sociologico, a livello psicologico, a livello... E allo stesso tempo si dice: ma a un certo punto do un taglio a tutto questo, e faccio spuntare un altro soggetto di cui non so che una cosa, ed è che non ne so niente. E’ noumenale, è l’altro Io. Un Io che è l’Io della libertà. Quindi, per principio, non ne posso sapere niente. Perché se ne sapessi qualcosa, lo riporterei sul piano del conoscibile, quindi dello scientifico, quindi del causale. Quindi ne farei un soggetto empirico, e non un soggetto trascendentale. La giustizia di oggi ha rifatto spuntare, senza rendersene affatto conto ideologicamente, un soggetto trascendentale, noumenale, di cui non so che una cosa, di non saperne niente, ed è perché non ne so niente che esiste.
Mentre la giustizia cinese...
Ma non ce n’è!
E’ una giustizia a tariffa, credo.
Sì. E’ proprio così. L’ha detto.
Si sa esattamente quello che si rischia per ogni atto che si compie.
Ci sono carota e bastone. Ci sono dei codici di punizioni e ricompense. Quindi ci sono due leve. Io, il sovrano, ho in mano due leve, nella macchina del potere, ho la carota, ho il bastone, muovo dei sentimenti spontanei, di paura o di interesse, e ho un tariffario.
Lei ha spiegato all’inizio del nostro incontro, di avere scelto la Cina perché era il solo pensiero, al di fuori del pensiero indo-europeo, a essere al tempo stesso antico, sistematico, scritto...
Non necessariamente sistematico, ma che sia esplicitato. Non volevo diventare un antropolgo.
Era questa la domanda che le volevo porre.
Quando si cerca l’alterità, ci sono due possibilità. O si fa l’antropologo o l’etnologo, si fa come Levi-Strauss e ci si rivolge all’America, o al Giappone antico, o all’Africa...
Dove si ferma il percorso? Basta studiare il pensiero cinese per ri-interrogare il proprio pensiero?
Sono filosofo. Quindi non ho imparato che a fare una cosa, nei miei studi, cioè a leggere dei testi. E’ la mia formazione. Non volevo essere un antropologo, volevo essere un filosofo. Ed è questo che fa sì che per me il pensiero cinese sia effettivamente comodo perché è al tempo stesso esterna alla nostra cornice di pensiero, cioè alla nostra lingua, l’indo-europeo, cioè ai nostri rapporti storici, fino a un’epoca tarda, ed è un pensiero esplicitato. Ed è commentato. Lavoro tra il testo e i suoi commenti. Quindi effettivamente ho questo partito preso – ma che è il mio: è il mio mestiere, è il mio lavoro – di mettermi su un piano che è innanzi tutto un piano testuale. Altra cosa è il percorso dell’antropologo. Ma per, diciamo, creare un faccia a faccia con la filosofia, occorreva che avessi una modalità di pensiero che fosse altrettanto esplicita del discorso filosofico. D’altra parte potrà osservare una cosa, ed è la reticenza della Cina nei confronti dell’antropologia. Ci sono antropologia ed etnologia in Giappone, in Africa, dappertutto, ma la Cina mi sembrava molto interessante per questa sua reticenza all’antropologia...
Il problema del Tibet proviene da qua?
Sì, appunto. Si fa dell’antropologia in Cina su quelle che si chiamano le minoranze. Allora tutti gli antropologi si trovano a Hong Kong o a Taiwan o in Tibet... In Cina si è formata molto presto, sotto l’influenza dei classici, della figura del letterato, una censura, una cancellazione di quello che era il sottofondo antropolgico, il fondo sciamanico che esiste in Cina come in Corea, ma che la cultura cinese ha coperto molto presto, ha cancellato. C’è una renitenza, una resistenza della Cina classica, quella dei testi.
La verità si dovrebbe trovare nella totalità dei punti di vista di tutte le culture immaginabili, o in un minimo comune che costituirebbe una intersezione... o non esiste affatto?
Allora le devo dire una cosa, ed è che ho deciso in corso d’opera di non usare più la nozione di verità. Non è obbligatorio. Non ci credo. Parlo d’intelligibilità. Esistono delle coerenze. Penso che il pensiero...
Non è relativista, l’intelligibilità?
No. Niente affatto. Non è affatto relativista. Ma di questo potremo parlare in seguito. C’è l’idea che in fondo, il reale sia un intreccio di coerenze. E quindi ci sono delle intelligibilità possibili, più o meno pertinenti, più o meno rigorose. Ci sono dei criteri. La nozione di verità è una nozione propria della filosofia. E’ molto interessante vedere che nella tradizione cinese si parla di vero o di falso, per disgiunzione, ma non si parla di verità. La prova, è che l’espressione è stata presa in prestito introducendola dall’Occidente: zhenli, è una nozione tradotta. E’ interessante. Perché? Perché indica che la filosofia si è fissata sulla verità per farne la nozione assoluta, la nozione cardine, e che è diventata indispensabile per la filosofia. Il mio ultimo libro è lì che conduce. Ed è questo che mi interessa. Lo stesso Nietzsche, quando dice: “Perché abbiamo preferito il vero rispetto al non vero, all’errore o all’ignoranza?”, rimette in dubbio la certezza della verità ma non esce dal riferimento alla verità, resta all’interno della filosofia. E il mio proposito è appunto, passando dalla Cina, di vedere, come una nozione come quella, di verità, sbiadisca, come non se ne abbia bisogno. Non che la si critichi: non ce n’è bisogno. Si legga Confucio, si legga Chouangtzeu, non c’è la nozione di verità. Il saggio cinese è autentico, zhenren, ma è autentico, non è vero.
Quindi la nozione di verità è una nozione che è essa stessa particolare. Vede fino a che punto non mi lascio andare a dei facili universalismi. Preferisco parlare d’intelligibilità, di coerenza. Perché quando leggo i testi cinesi, vedo che sono coerenti, vedo che c’è un senso, vedo che reggono. Coerente, cioè a dire: regge. E quello che cerco di fare per cominciare è descrivere, afferrare le coerenze e descriverle, renderle esplicite. E sono consapevole che in fondo, ogni strumento teorico faccia luce su un certo settore della realtà. Non presuppongo che l’esperienza sia necessariamente diversa tra la Cina e noi; parlando della pietà credo che sia comune. Ma il nostro strumento teorico è più o meno adatto a fare luce. Quindi, per quella che chiamo la reazione di fronte all’insopportabile, quello che succede all’altro, penso che Mencio, il pensiero di Mencio, sia più adatto per renderne conto che non il pensiero europeo che, diciamo, gira in tondo. Cerco di dimostrarlo all’inizio: quello che Shopenauer chiama “il mistero della pietà”. Penso che il pensiero europeo, poiché è un pensiero del soggetto, ha dovuto penare per spiegare quella che chiama pietà perché la pietà è appunto il rapporto immediato con l’altro. Ed rientra nella categoria della relazione. Ora il pensiero europeo è innanzi tutto un pensiero isolante, del soggetto-individuo. Quindi come motivare il mio rapporto immediato con l’altro? Perché è una reazione, la pietà; non è pensata, è reattiva. Come motivare il mio rapporto immediato con l’altro in termini di reazione, se sono nell’ambito di una filosofia del soggetto, dell’individuo-soggetto, come lo è Rousseau? Rousseau si incaglia. Nel momento stesso in cui fonda la morale sulla pietà che è un sentimento spontaneo, quando la spiega conto si incaglia. Ebbene, mi sembra che il verso preso dal pensiero cinese chiarisca meglio questa reazione all’insopportabile, di fronte alla disgrazia che capita a un altro, di quanto non facciano gli strumenti europei.o.fondo quello che cerco non è la Cina, è, in questo scarto tra pensiero cinese e pensiero europeo, risalire al nostro impensat
Quindi, è partendo dal suo pensiero che ritrova nel pensiero cinese qualcosa che le sembra spieghi meglio un aspetto della realtà.
Come ce ne sono degli altri che spiegano meno bene. So che...
Non perché, per semplificare, pensa che, fondamentalmente, c’è un punto di vista giusto sulle cose e sulla realtà, o c’è una molteplicità di punti di vista che ne afferrerebbero semplicemente una parte? Insomma, non voglio metterla in difficoltà con questa domanda...
No, è reale. Solo, sono prudente. Penso che ci siano delle coerenze di pensiero più chiarificatrici di altre, più pertinenti di altre, più feconde di altre. Lo sdoppiamento del mondo, di qua/di là, mondo sensibile/mondo intelligibile, è vero? Direi che è fecondo. E’ una coerenza elaborata, che ha degli effetti consistenti sul pensiero. Ma potrei dire che è la verità? Sarebbe tornare a essere prigioniero di una nozione, la verità, che ritengo non sia stata così essenziale...
Non dicevo verità, di fatto. Ho detto “punto di vista giusto”, che è un po’ diverso.
Ho capito bene. Il suo discorso è cambiato.
Sì. Perché non era la stessa domanda.
Sì. Si è evoluta. Ma direi che l’idea di giustezza, in quel caso, resta dipendente da un’idea di adeguamento. Direi che ci sono dei punti di vista che sono, per usare dei termini miei, “falsi”, nel momento stesso in cui ogni punto di vista ha la sua giustificazione. E ci sono dei punti di vista che sono più fecondi di altri. Ma mi guarderei bene, su un piano metodologico, dall’inoltrarmi troppo in fretta nella direzione verso cui si tende sempre, e cioè un risorgere della verità perché, diciamo, fermerebbe la dimensione di esplorazione del mio lavoro.
Vorrei insistere un po’ su questa domanda perché ci servirà da passaggio verso il terzo aspetto su cui le volevo porre delle domande: qual è l’attualità del pensiero cinese oggi? Il pensiero che lei studia informa ancora la società cinese, la sua organizzazione sociale, la sua politica? Influisce sui processi di decisione, per esempio, e sul modo in cui i dirigenti cinesi, o gli industriali vedono il mondo e la collocazione della Cina nel mondo? E’ un problema che ha la sua importanza perché se ogni logica ha la sua coerenza e se ognuno pensa che il suo punto di vista è forse non “più giusto” ma almeno “altrettanto” di quello dell’interlocutore, non si vede perché, visto il peso che attualmente ha la Cina, i Cinesi non dovrebbero cercare, dopo tutto, d’imporre il loro punto di vista sul mondo.
E’ una domanda essenziale ma complessa. Sono consapevole, da un lato, che il pensiero europeo, o le categorie del pensiero europeo, tendono a coprire tutto il mondo, nell’epoca della globalizzazione. E’ quello che evocavo prima: il pensiero standardizzato. Il pensiero cinese esplicito oggi è dunque molto poco interessante. E’ praticamente inesistente. Se va in un dipartimento di filosofia in Cina: la gente fa affari. Perché si vogliono arricchire... E’ legittimo, non sto biasimando nessuno, ma diciamo che... Bene. Poi, quando commentano i loro testi classici, li commentano spesso con un linguaggio che si conforma al nostro: soggettivo, oggettivo, verità, estetica, ecc., tutti i nostri strumenti, e rendono spesso illegibile o ininteressante il loro stesso pensiero.
A questo proposito, pensa che l’influenza degli studi occidentali, come li si chiama in Giappone, sia stata veramente importante in Cina?
Innanzi tutto direi che per buona parte è arrivata dal Giappone. In fondo Meiji ha avuto un effetto di ritorno sulla Cina. Certo ci sono anche degli intellettuali cinesi che sono andati in Europa, ma quella che è stata la grande impresa giapponese di occidentalizzazione del pensiero, che ha raccolto il testimone da imprese precedenti provenienti dalla vicina Cina, ha aiutato la Cina, è tornata in Cina. Questo è il primo punto. Il secondo punto è quello che sfugge da una formulazione esplicita. Lei parlava di affari. Ho accompagnato imprese francesi venute in Cina per concludere affari. Ci sono delle strategie cinesi classiche, antiche, a cui i Cinesi non rinunciano. Per esempio nel mio lavoro sull’efficacia contrappongo la manipolazione alla persuasione. Quando gli uomini d’affari europei vanno in Cina spesso vorrebbero persuadere i Cinesi. Mi si dice “Ma come faccio a convincerli che ..?”. Lì si trova tutto il fondo greco: retorica e persuasione, peito, no? Si ritrova d’un colpo tutta la Grecia, l’oratore... Già in Omero i personaggi vogliono convincersi a vicenda. E questo è sboccato in istituzioni politiche come l’agora o il tribunale, l’assemblea. La democrazia riposa su una cosa, la persuasione. Mentre in Cina non è questo il problema: si manipola. Il che vuol dire che si creano delle condizioni tali per cui passerai dove si vuole che tu passi.
E’ quello cui cerco di dare una forma nel mio lavoro sull’efficacia. Ho scritto un capitolo “persuasione contro manipolazione”. Manipolare è creare delle condizioni nella situazione, gestire la situazione in modo tale che lei, proprio lei, credendo di fare quello che vuole fare, sia costretto a passare dove io, proprio io, voglio che passi. C’è qualcosa di molto sviluppato in Cina, di molto raffinato. Si legga i trattati di strategia, di politica, di diplomazia: è questo quello che le si dice. Non c’è il problema di convincere; non se ne fa proprio cenno. Per esempio un trattato di diplomazia, ne studio uno in questo libro: non si tratta di convincere il principe, si tratta i fare in modo che il principe sia costretto ad ascoltarmi, costretto a seguirmi. Da questo tutto quello che c’è a monte, nel modo di sottometterlo, di influenzarlo, di fare in modo che sia ridotto a essere passivo, come nella strategia cinese, che faccia in modo che io possa usarne come credo. Tutto è all’interno della manipolazione perché bisogna condurlo a passare dove io voglio che passi, mentre crede di passare dove vuole lui, per dove è bene per lui di passare. Credo che questo, quando guarda il mondo degli affari tra Cina e Europa, incida. Allora spesso vedo uomini d’affari francesi che vogliono persuadere i Cinesi, e vedo uomini d’affari, interlocutori cinesi che manipolano. Quando si ha una risorsa, la si usa, non crede?
Ha detto: “Non hanno rinunciato a...”. Vuol dire che è una scelta di strategia o al contrario che i Cinesi non possono pensare a questo genere di rapporto se non sotto questo aspetto?
No! Penso che della strategia ci sia, perché sanno bene come facciamo, noi. Vanno in Europa. Studiano il nostro modo di fare affari, di fare amministrazione, di fare politica. Ma penso che siano più o meno coscienti...
Studiano. Ma assimilano?
Ah sì. Certamente. Credo che capiscano, ma che siano consapevoli che si tratta di un’altra risorsa, che ha un’efficacia diversa che è l’efficacia della persuasione, come c’è un’efficacia del discorso, e che c’è un’efficacia opposta, della manipolazione, come c’è un’efficacia del silenzio. E’ meglio avere due risorse che una sola. Come diceva il presidente Mao: “Camminare su due gambe”. Quindi credo che abbiano, coloro che sono stati in Europa, che hanno studiato nelle nostre scuole, una conoscenza spesso rigorosa delle nostre strategie del discorso, delle nostre strategie di pensiero. Ma, diciamo, non rinunciano all’efficacia, a ricorrere a strategie come la manipolazione. Perché rinunciarci se è efficace?
A parte questo aspetto delle strategie per negoziare, ci sono anche degli altri punti?
Nel discorso. Lei ha citato il mio lavoro: Le Détour et l’acces. Esiste un’efficacia del discorso diretto, frontale, esplicito, del logos, nella nostra tradizione, ma c’è un’efficacia inversa, e a cui non rinunciano, dell’allusivo, della critica indiretta, del trasversale, di quella che chiamo l’obliquità. L’obliquità in Cina, oggi ce n’è.
Funziona all’interno della cornice cinese?
Sì. E anche in rapporto a noi. Credo che abbiano assimilato molto meglio di prima i nostri modelli retorici. Basta avere dei rapporti con dei cinesi per vedere che gli effetti del silenzio, o del non detto – conosce i proverbi cinesi: “Fare rumore a est e attaccare a ovest” – vale in termini di strategia e vale all’interno di un discorso. C’è la parte principale del discorso che sviluppo, che dico in modo esplicito, con insistenza, e poi c’è la carica insidiosa, l’insinuazione decisiva. E’ da lì che passa tutto. Non hanno rinunciato a questi scarti all’interno del discorso.
1492-1997. L’anno scorso, il ritorno di Hong Kong alla Cina. Due pietre miliari. Si sono conosciuti cinque secoli d’espansione occidentale e, direi, due tipi di missionarismi, un missionarismo che era teologico e che portava valori religiosi, e un secondo missionarismo che era colonialista ma che camuffava interessi particolari dietro un’ideologia che era quella del progresso e dell’universalità, appunto. Ora, in questi ultimi tempi, si cominciano a sentire degli echi opposti...
Relativisti?
C’è il relativismo, ma c’è di più. La Cina, ma anche qualche altro paese in Asia, sembra avere la tentazione di chiudere questo periodo ma allo stesso tempo di fare la lezione all’occidente.
Tanto più se il potere economico andasse dalla parte loro.
E non è che un inizio. Se tutto procede come sperano i Cinesi, il peso demografico, politico ed economico della Cina sarà talmente schiacciante che il problema si presenterà anche se ...
Proprio così Allora, prima cosa, una questione di metodo. Voglio evitare due scogli. Quello che chiamerei “l’universalismo facile” – non rinuncio all’universalismo -, che è questa sorta di umanesimo immediato, di unanimismo dove non si fa che proiettare le proprie nozioni, le proprie categorie sul resto del mondo, pensando che siano destinate a essere valide dappertutto. Ma c’è l’altro scoglio, quello che chiamerei il “relativismo pigro”: si rinuncia all’esigenza di universalità, ci si ripiega sulla particolarità delle culture, delle “mentalità”, si dice: “E’ Cinese”. No! Faccio un lavoro dove ho la pretesa di capire l’altro. Perché è intelligibile. Parlo di intelligibilità. E penso che oggi si oscilli troppo tra questi due scogli. L’Unesco, sui diritti umani, oscilla tra i due. Qualche volta si dice: i diritti umani, l’universalità, i grandi principi, ecc. Altre volte si dice: “Sì...in Africa parlare di diritti umani oggi, mentre ci sono ancora questi problemi dei clan...”. Stride. Non funziona. E allora, ci si ripiega sulla posizione relativista. E ridico: no! Non bisogna né cedere troppo semplicisticamente all’illusione dell’universalità, che è un’esigenza, che è un ideale, ma che non è necessariamente quello da cui può partire il pensiero, né, perché si è delusi, cadere nell’opposto che è quello che io chiamo il “relativismo pigro”. Credo che il nostro lavoro, il lavoro del pensiero, sia di far lavorare il particolare e il generale, all’andata e al ritorno, in un va e vieni. Credo che, ideologicamente, sia un problema di oggi. Sui diritti umani si sentono i due discorsi, e non si riesce a far sposare l’uno con l’altro; il che fa sì che talvolta se ne faccia uno e talvolta l’altro. Per esempio, il governo francese rispetto alla Cina, ai diritti umani in Cina, ha sostenuto talvolta l’uno e talvolta l’altro. C’è un primo periodo, all’epoca dei fatti di Tienanmen, in cui si è fatto un facile discorso universalista, poi dopo, quando si è visto che gli uomini d’affari tedeschi o italiani vendevano meglio di noi perché avevano suonato meno la grancassa dell’universalismo, si è tornati su una posizione universalista in cui si dice: “Bene, sono i Cinesi, è un’altra cosa”.
Quel che è interessante in questo esempio, quello che si scopre, direi da un punto di vista cinese, è che la posizione dei diritti umani, quella che difende i diritti umani, è debole, perché si ritrae, quando non c’è bisogno di ritrarsi. Non è un po’ inquietante?
Sì. Ma allo stesso tempo, io difendo i diritti umani. Quindi non sono all’interno di un discorso dove voglio relativizzare i diritti umani. L’ho detto appunto in quanto universali, cioè in quanto esigenza della ragione. Ma, sono un uomo della ragione, sono un filosofo. Ma, appunto, è un’esigenza, è nell’ordine dell’ideale, e l’affermazione, posta così, perentoria, di una validità dei diritti umani dappertutto, urbi et orbi, come se fossero quello per cui, adesso, devono passare per forza tutte le forme della società, dico: prudenza. E’ come le elezioni, la democrazia occidentale. La modalità delle elezioni, la modalità della decisione presa con le elezioni, col suffragio, con la contabilità, ossia con un modello matematico, legato alla città greca, legato alle riforme di Clistene, legato all’incontro molto particolare nella storia greca tra un teorizzatore matematico venuto dallo Ionio e Atene alla fine dl sesto secolo, è comunque un momento particolare della storia; e dove è nato un modello essenziale che è il voto, decisione sociale, politica, da un conteggio, dove si dice: 49% contro 51%, il 49% non vale niente per un certo tempo e il 51% ha tutto il potere. Ritenere che questo sia il solo modello di rapporto politico oggi, che sia necessario imporlo così, direttamente, dico: prudenza. Perché le reticenze saranno forti... Allora quello che ha detto ora è molto giusto, a mio parere, e cioè che se lo si fa troppo semplicisticamente, il contraccolpo sarà molto violento. E’ che i paesi asiatici, acquisendo potere economico, vorranno anche il potere politico e ci restituiranno un colpo molto violento rifiutando modelli presentati troppo frettolosamente come lo sono stati i nostri. Lo dicono già oggi, ma lo metteranno in pratica presto.
Direbbe che c’è un modello socio-politico cinese che sarebbe un modello di regolazioni, opposto a quello della democrazia, per il quale interessa innanzi tutto di salvaguardare un certo equilibrio nell’ordine delle cose, quale che sia il prezzo...
Sì. L’armonia. La grande armonia, Tai?
... e che potrebbe rivendicare una generalizzazione di quel modello?
Sì. Ma lo dicono già ora. Uno dei concetti che cerco di elaborare per spiegare il pensiero cinese, lo ha appena citato: è la regolazione. Cos’è la regolazione? E’ l’armonia in evoluzione. Non è l’armonia prestabilita, è l’armonia che non smette di cambiare. La regolazione, è che l’armonia si mantiene attraverso il cambiamento. Quindi il pensiero cinese è un pensiero di regolazione perché è un pensiero dell’armonia e del processo. E, effettivamente, è quello che dicono sempre. Per loro è l’armonia tra l’alto e il basso, la regolazione tra il potere e il popolo. Esempio: i dazebao, i manifesti murali, è la regolazione alla cinese. Allora, non ne voglio fare l’apologia, ma dico: siamo prudenti con delle proiezioni che sono nostre, perché c’è una proiezione di un campo sull’altro, di un periodo peraltro in cui l’Europa era forte, economicamente e politicamente. Questa situazione cambia, oggi è chiaro.
Tutto il mio lavoro, se vuole, a prescindere dalla Cina, è di cercare di fare, di scrivere quella che dovrebbe essere una storia particolare dell’esigenza di universalità. Una storia particolare, cioè, in fondo, quello che spero è di riafferrare la storia della ragione europea da quel fuori che è la Cina. Per esempio l’universalità greca non è affatto l’universalità romana. L’universalità greca, è un’universalità del logos, della definizione, dell’astrazione, del en ti eidos, di un’essenza una, l’in sé delle cose. E’ questo che ci dicono Platone, Aristotile, i filosofi greci. Quindi è un’universalità del logos. Logos, discorso, definizione. L’universalità latina è tutt’altra cosa. E’un’universalità del territorio; è lo spazio romano; è il Mare nostrum; è il Mediterraneo; è in fondo che si può essere cittadini allo stesso modo in Tunisia e in Gallia, la civitas, no? E’ un’altra cosa. Quindi un altro modello di universalità. Il cattolicesimo è anche un altro modello di universalità, ancora diverso: nel cattolicesimo c’è del romano e del greco...
Tutti questi modelli, perché si considerano universali, hanno avuto la tendenza a essere imperialisti. C’è stato un imperialismo greco, un imperialismo romano, un imperialismo cristiano...
Sì, certo, ma molto diversi. L’imperialismo greco è un imperialismo della ragione...
Un imperialismo nel senso che si cerca di estendere i propri valori agli altri. I cinesi non potrebbero avere questo tipo di imperialismo?
Ma i Romani, è tutto un altro modello di imperialismo, il cattolicesimo un altro modello ancora. Quello che mi interessa, è che in fondo si scrive una storia della filosofia dove si avrebbe una sorta di maturazione progressiva, necessaria, coerente, unificata dell’esigenza di universalità. Ora io trovo, al contrario una storia europea molto composita, leggi caotica: momento greco, momento romano, cattolicesimo; certo riassumo. Quindi l’Europa è molto più composita, e quella che appariva come se fosse la ragione nata, come Atena, dal cranio della filosofia, in epoca classica, quella che lei cita, di fatto non lo è, non è la storia della ragione. C’è una maturazione, ancora un volta, molto più caotica, casuale anche, di quanto non la descriva in seguito retrospettivamente la filosofia.
Credo che l’Europa attualmente sia presa da un’esigenza di universalità in un momento in cui non ha più – diciamo tanto quanto prima in ogni caso, ma penso che ce l’abbia ancora perché ho ancora fiducia nelle sue possibilità – la supremazia economica e politica. Siamo in questa situazione. E, come le ho detto, il discorso dell’Unesco si scontra con questa difficoltà. E il lavoro che faccio è appunto perché sono consapevole che bisogna organizzare sul piano teorico un incontro che permetta che i rapporti d’imperialistici, di cui la storia è sempre intessuta – non ci posso fare niente, è così: i rapporti di forza -, evitino che si assista da una parte a una sorta di copertura del pensiero dell’Estremo Oriente con gli strumenti teorici europei, e poi, per contraccolpo, a delle resistenze che rischiano di essere feroci, dove delle società che hanno un’importanza economica e politica sempre maggiore, e che sono state ricoperte da questa sorta di strumenti comuni, saranno nella posizione di rifiutarli o di voler violentare l’esigenza di universalità europea .
Non pensa che la democrazia come la pratichiamo noi, che è un modello conflittuale, apparirebbe fragile se opposta in un rapporto di forza con un modello quale sarebbe il modello della regolazione, molto più stabile e solido? Si può cominciare su una base di libero scambio con un modello culturale potenzialmente distruttivo per la nostra stessa struttura?
Personalmente, credo nel valore del conflitto. E penso che l’armonia sia un pensiero ricco, dal lato cinese nel rapporto con la natura per esempio, ma che sia molto facilmente alienante sul piano sociale e politico. Perché sotto l’armonia scivolano via sempre altre cose che sono rapporti di forza. Quindi, siccome non credo, fino a prova contraria, che i rapporti sociali possano essere del tutto esenti dai rapporti di forza, penso che la posizione di contestazione, la posizione di denuncia siano posizioni socialmente utili. Sono dal lato della libertà. E penso che la libertà possa essere in pericolo. E quindi che occorre appunto fare uscire allo scoperto questa esigenza. Personalmente, sono dalla parte della Città. Cioè di un luogo dove si affrontano i discorsi, la contestazione, perché mi sono appunto reso conto che, dal lato cinese, sotto l’ideologia dell’armonia, c’è una forma di alienazione che è molto pericolosa. E penso che potrei parlare del Giappone se ne avessimo tempo, nella stessa maniera. Ho molta paura dei pensieri consensuali, delle attitudini comuni, sotto l’immagine dell’armonia, di quello che funziona bene, che è ben oliato. Temo molto il ben oliato della società.
Allora ci parli un po’ del Giappone. Cos’ha sullo stomaco?
Per cominciare avevo una cosa da dire che è – parlo dal vivo, è chiaro – la resistenza che ci trovo, in ogni caso rispetto al mio lavoro, tra due scogli, e innanzi tutto quello dell’iper-specializzazione per cui ci si chiude sulla propria materia. Per essere competenti la specializzazione è necessaria, su questo sono d’accordo. Ma chiudendosi sulla propria materia ci si priva o si rinuncia, o si vuole rinunciare a una curiosità del pensiero. Se mi specializzo a fondo, non mi interessa più. Lo faccio come qualsiasi altra cosa. Mentre nel mio lavoro filosofico sono implicato personalmente. E questo scoglio della specializzazione va di pari passo con quello che chiamano il nihonjinron, e cioè una sorta di discorso culturale a colpi di generalizzazioni o di opposizioni segnate con l’accetta: il Giapponese, il Francese. Non so cosa sia il Giapponese o il Francese, io! Io lavoro su un testo. Ma il Giapponese che riassume tutti i giapponesismi, io non l’ho mai incontrato. Una cosa cammina con l’altra, è questo che qui mi imbarazza. E io, parlandone qui, incontro delle difficoltà, perché non voglio né isolarmi, né circoscrivermi all’interno di una semplice specializzazione, ho esigenze da filosofo quindi di generalizzazione. Né mi posso accontentare, anche se per necessità me ne devo accontentare e anche se il mio discorso passa di là – quando dico i “Cinesi” è un modo economico di parlare, di fatto parlo di un testo: Mencio -, di una sorta di facile generalizzazione, diciamo fantasmatica. Camminano insieme, fantasma e generalizzazione, uso fantasmatico della generalizzazione, e poi iper-specializzazione dove taglio con il mio interesse. Questo è pericoloso, il rapporto del soggetto con il suo lavoro. Nell’iperspecializzazione non mi interesso più in quanto soggetto, lavoro come farei...che so: le pulizie? E nel nihonjiron immagino. Allora c’è semplicemente il mio desiderio, desiderio d’identità, desiderio di non so che. Credo che nel lavoro intellettuale ci voglia il desiderio, ma un desiderio che riflette, che motiva il pensiero. Quindi lavoro tra particolarismi e generalizzazioni, con un va e vieni tra i due, tra i due poli, e penso che questo sia fare della filosofia. E in Giappone incontro, diciamo, una resistenza, una reticenza – che ho riscontrato in questi giorni – perché da un lato mi si vorrebbe prendere nella trappola della specializzazione, dall’altro mi si vorrebbe impigliare nelle categorie del discorso generalizzante. Per esempio, le interviste che ho avuto alla radio: Cosa pensa del Giapponese? Etc. Ma insomma, bisogna analizzare, bisogna elaborare. Ecco, questa è la prima cosa che volevo dire del Giappone.
Da un lato la routine, e dall’altra parte una fantasia anch’essa molto prevedibile. Tutto questo si ritrova in molti aspetti della società giapponese.
C’è da un lato un lavoro circoscritto e, effettivamente, da cui effettivamente è stato tolto il desiderio, o il piacere, e quindi con una sorta di pertinenza che è una pertinenza di habitus. Poi, dall’altro lato, c’è... beh! C’è il fantasma, qualche parte, perché siamo esseri umani...
Ha vissuto in Cina e ha vissuto anche in Giappone. E’ difficile non chiederle di mettere a confronto le sue esperienze. Cosa rappresenta per lei, in quanto sinologo, il Giappone? Cosa ritrova della Cina nella società giapponese, e in quello che conosce del pensiero giapponese?
Le dico come prima cosa: rispetto alla Cina ho usato il Giappone nel senso che ho utilizzato gli studi giapponesi sulla Cina. Dal momento che il Giappone da molto tempo ha avuto rapporti con la Cina e c’è tutto un lavoro di elaborazione sinologica fatta dai giapponesi di cui mi servo. Quindi la prima ragione è una ragione di comodità. Quando sono venuto in Giappone, molto è stato per questo motivo. Il primo anno, il primo mese in cui sono stato in Giappone, vedevo il Giappone attraverso la Cina. Poi è vero che mi interessa la riproduzione e anche la trasformazione fatta dai giapponesi della cultura cinese. Per esempio, come si trasformano in Giappone le tematiche letterarie cinesi, la poesia cinese. Si riconoscono nello stesso tempo delle tematiche, si riconoscono degli elementi diciamo riprodotti e allo stesso tempo c’è un grande cambiamento. La poesia cinese, la poesia classica, si basa essenzialmente sul parallelismo. La poesia giapponese, invece, su una rottura del parallelismo, della simmetria. E’ interessante perché è rivelatore di quello che è la Cina e di quello che è il Giappone. Per me c’è uno scarto di comprensione. Credo che ci sia una vera poesia giapponese, molto interessante, di cui certi effetti sono legati ai temi cinesi, altri sono legati a forme prosodiche che sono forme inventate in Giappone, e spesso in contrapposizione a forme cinesi. Ancora una volta la poesia cinese classica funziona sul parallelismo, la poesia giapponese ha elaborato molto i suoi effetti in contrasto a questo. Poi c’è tutta la sensibilità giapponese – per tagliar corto, è un’espressione facile – la poesia delle stagioni ecc., che, certo ha delle corrispondenze in Cina, ma che è al tempo stesso molto giapponese. Il modo di trattare il tema amoroso, per esempio, è molto diverso. Bene, sarebbe troppo lungo parlarne, e poi quando se ne parla, bisogna farlo sul testo.
Quindi, in quanto sinologo, ci sono degli aspetti che riconosce, che utilizzano materiale d’origine cinese, ma che hanno trasformato.
Certamente. Ci sono anche delle situazioni dove questo è stato mantenuto in Giappone e non in Cina, per esempio nelle arti poetiche, dell’epoca Tang, epoca in cui il Giappone è andato in Cina per imparare. Nel campo della medicina, nel campo della poesia, in molti campi ci sono dei testi che sono stati conservati in Giappone e non in Cina; e dei testi molto interessanti per noi perché sono dei manuali. Dei testi che per i cinesi non erano interessanti perché si trattava di testi pratici, di saper fare, e che quindi non sono stati conservati dalla tradizione letteraria, ma che in Giappone erano importanti perché, appunto, testi di saper fare gli fornivano istruzioni pratiche.
E per quanto riguarda il Giappone e la Cina oggi, trova degli elementi di confronto nel pensiero che è in atto, che governa la condotta sociale, la psicologia...?
Eviterei di discutere su questo punto perché è troppo generico: Per contro le posso dire una cosa: ho insegnato letteratura francese in Cina e in Giappone. Di questo ho esperienza, quindi ne posso parlare. Ho avuto l’opportunità di insegnare letteratura francese contemporanea per tre mesi a Pechino ai professori di francese dell’università, quando c’è stata l’apertura nel 1978. Un anno dopo essere stato studente sono stato mandato dalla Francia, e per tre mesi ho fatto quello che non avrei mai pensato di fare: non ho insegnato la lingua, ho insegnato letteratura francese contemporanea, di cui non avevano nessuna idea per motivi ideologici... E ho cominciato col fargli leggere Barthes, per esempio, o Eluard: “La terra è blu come un’arancia”... Il che li ha disorientati, ma al tempo stesso ho potuto individuare una sensibilità per il testo letterario molto sviluppata tra i Cinesi. Credo che tra i Cinesi e i Francesi, tra i Cinesi e me, comunico molto attraverso la letteratura, il senso del testo, il piacere del testo. Ho avuto l’opportunità di insegnare letteratura francese anche in Giappone. E’ stata un’altra esperienza, perché i giapponesi quando lavorano sulla letteratura dedicano molto tempo alla storia della letteratura, la biografia, una sorta di rapporto intimo con l’autore. Sa: si vive totalmente vicino all’autore, si passa la vita con un autore. Spesso non si tratta di un grande autore. In Giappone si fanno tesi su tutto; non su Flaubert ma su Maxime Du Camp. Anche se, credo, è L’educazione sentimentale che è dedicata a Maxime Du Camp e Maxime Du Camp che è entrato nell’Académie Française, e non Flaubert. Ma non sono motivi sufficienti per occuparsene.
Recentemente è stato rivalutato.
Ah sì? Ma insomma, la sera quando ho tempo per leggere, leggo Flaubert piuttosto che Maxime Du Camp. Ma tutto questo per dirle che quello che ho scoperto in Giappone è questo modo di specializzarsi su un autore e progressivamente assorbirlo, impregnarsene, cosa che crea un modo di comprensione, ma che non è il metodo di commento che io pratico, un commento strutturale, un commento che esercita una sorta di imperialismo sul testo, di imperialismo teorico, ma che è una sorta d’impregnazione, d’identificazione, che mi sembra molto diverso da quello che ho incontrato in Cina.
Se in Giappone percepisce una logica e una coerenza che sarebbero diverse da quelle del pensiero cinese non è tentato dall’approfondire la sua conoscenza per allargare il suo campo di lavoro?
Sì. Ma, prima cosa, la vita è breve. Non si fanno investimenti multipli. Ho fatto un investimento nella filosofia europea, greca, e continuo a leggere il greco. Ho fatto un investimento abbastanza pesante sul lato cinese. Ne ho fatto anche uno sul lato giapponese, ma c’è un momento in cui bisogna cominciare a far rendere l’investimento che si è fatto. E poi, glie l’ho detto, l’utilizzazione del giapponese rispetto al mio lavoro è più che altro un uso rivelatore; nello stesso tempo per quello che rivela per prossimità al pensiero cinese e per quello che rivela anche per reticenza in merito al pensiero cinese. Certo, anche lo stesso Giappone m’interessa. Mi interessa molto per esempio sul piano estetico. C’è qualcosa che mi piace del Giappone, che è giapponese, che è l’estetica dei pasti che non c’è in Cina. La tavola cinese non è bella. Qui, quando vado in un ristorante, vado per guardare, non per mangiare. Perché quando alzo il coperchio della scodella della minestra, è bello. Questo rapporto tra il liquido e il solido, quello che galleggia e quello che non galleggia. C’è un’armonia in come sono tagliate le pietanze, nel sashimi, un’estetica che si percepisce immediatamente, che non ho bisogno di studiare, di cui gioisco, e di cui dico: è giapponese, non è cinese. Guardi una tavola cinese, non è bella. E’ presto sporca, mentre un piatto giapponese è rigoroso e sorprendente nella sua bellezza. L’equilibrio dei componenti, delle terrecotte, del legno, le bacchette, tutto sta bene insieme, il modo in cui sono disposti... C’è una reazione che identifico molto bene. Non ci vado che per questo. C’è un piacere immediato per una cosa che identifico culturalmente. Dire questo non è sprofondare nel nihonjiron. Perché si basa su un’esperienza che è immediata e che al tempo stesso posso spiegare molto bene perché posso dire quello che c’è di bello.
Al di fuori dei pasti, ci sono altre cose che la seducono nell’estetica giapponese?
Sì, molte. L’abbigliamento, gli onsen, i piccoli ristoranti [?]... Non mi piacciono le grandi strade, le metropoli che svettano, ma sotto, quello che si annida sotto i portici, è affascinante. Si apre la porta, si entra subito nell’atmosfera. Mi piace molto il Giappone popolare. Se stessi in Giappone, non sarei un intellettuale, sarei uno del popolo. Avrei un hachimaki in testa, starei dietro ai fornelli, starei... starei in un onsen! Trovo che l’onsen, questo è veramente giapponese. Questo rapporto col corpo, questo rapporto con l’acqua, questo rapporto col nudo, cosa che non è affatto cinese. Farei il custode di un onsen, se stessi in Giappone. Un onsen nella neve, un po’ come all’inizio di Yukiguni. Forme di piacere del corpo, modi di piacere del corpo molto diversi, e coi quali posso comunicare di primo acchito, senza bisogno d’intellettualizzare. Se non avessi avuto impegni ieri e oggi, avrei passato due giorni in un onsen.

Conversazione raccolta da Richard Plorunski e Bill Gater all’hotel Tokyo Daiichi, Shimbashi, il 25 gennaio 1998.